Elisabetta Bortolin
Piccolo manuale di sopravvivenza
da sabato 11 gennaio a venerdì 28 febbraio 2025 |
Spazio Foto
Casa dello Studente Antonio Zanussi Pordenone |
Dopo la laurea in lettere all’Università di Padova, si è formata come attrice alla Scuola Internazionale di creazione teatrale Kiklos, sempre a Padova. Nel 2009 si è trasferita a Parigi, dove ha accumulato numerose esperienze in campo teatrale: con il Laboratorio “Trama”, con “Impro Project”, nella clownerie e nel settore del teatro d’animazione. Dal 2016 si è fatto più intenso il suo impegno nel campo della creazione visiva: i suoi disegni, dipinti, monotipi, fotografie sono stati finora esposti solo nella mostra postuma che le è stata dedicata nel 2023 a Montreuil, nella Galerie L’Escalier.
INAUGURAZIONE
SABATO 11 GENNAIO 2025 ORE 11.00
PORDENONE - Comincia con una mostra dell’artista pordenonese Elisabetta Bortolin - a cura del Centro Iniziative Culturali Pordenone - il 2025 dello Spazio Foto di Casa Zanussi Pordenone. L’esposizione è promossa dalla famiglia, in memoria di una attrice e artista scomparsa prematuramente nel 2022, dopo aver vissuto in Italia e a Parigi.
La mostra come il catalogo sono curati dallo storico dell’arte Fulvio Dell’Agnese. Sotto il significativo titolo Piccolo manuale di sopravvivenza vi si ripercorrono, attraverso una sessantina di opere, alcune tappe del percorso artistico di Elisabetta, dai disegni a carboncino agli ironici ritratti – sia scritti che grafici – dei clienti incontrati durante un’esperienza lavorativa in una nota caffetteria pordenonese. Poliedrica, quindi, la sua arte, espressione di una vita intensa quanto breve. Scrive Dell’Agnese: “Alla fine, da una valutazione complessiva dei testi e del lavoro grafico dell’autrice (che non esaurisce comunque la sua attività nelle arti visive, aperta pure alla fotografia) potrebbe sorgere un senso di rimpianto, riguardo ai risultati che sarebbero stati raggiungibili se le energie di Elisabetta si fossero concentrate in questi settori, rimasti invece a lungo marginali rispetto alla dedizione principale ai linguaggi della teatralità. Ma credo che plasmare espressivamente il proprio corpo fosse per lei di primaria importanza, essenziale per dare sostanza di fisicità e spessore emotivo alle parole e al disegno. Per me la pittura è la persona. Voglio che funzioni per me come fa la carne”.
Inaugurazione ufficiale sabato 11 gennaio 2025, alle ore 11.00, con ingresso gratuito. La mostra rimane visitabile fino al 28 febbraio, sempre con ingresso gratuito, dalle 9.00 alle 19.00, dal lunedì al sabato.
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La mostra come il catalogo sono curati dallo storico dell’arte Fulvio Dell’Agnese. Sotto il significativo titolo Piccolo manuale di sopravvivenza vi si ripercorrono, attraverso una sessantina di opere, alcune tappe del percorso artistico di Elisabetta, dai disegni a carboncino agli ironici ritratti – sia scritti che grafici – dei clienti incontrati durante un’esperienza lavorativa in una nota caffetteria pordenonese. Poliedrica, quindi, la sua arte, espressione di una vita intensa quanto breve. Scrive Dell’Agnese: “Alla fine, da una valutazione complessiva dei testi e del lavoro grafico dell’autrice (che non esaurisce comunque la sua attività nelle arti visive, aperta pure alla fotografia) potrebbe sorgere un senso di rimpianto, riguardo ai risultati che sarebbero stati raggiungibili se le energie di Elisabetta si fossero concentrate in questi settori, rimasti invece a lungo marginali rispetto alla dedizione principale ai linguaggi della teatralità. Ma credo che plasmare espressivamente il proprio corpo fosse per lei di primaria importanza, essenziale per dare sostanza di fisicità e spessore emotivo alle parole e al disegno. Per me la pittura è la persona. Voglio che funzioni per me come fa la carne”.
Inaugurazione ufficiale sabato 11 gennaio 2025, alle ore 11.00, con ingresso gratuito. La mostra rimane visitabile fino al 28 febbraio, sempre con ingresso gratuito, dalle 9.00 alle 19.00, dal lunedì al sabato.
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Elisabetta ha uno sguardo acuminato
Le persone che entrano in caffetteria, e che la trovano dietro al bancone, vengono definite a parole con un tratto tagliente ma comprensivo, capace di tenerezza, che sembra quello del Pericoli disegnatore, in uno stile letterariamente già francese (vien da pensare a Quenau) anche se Parigi, nei primi anni Duemila, era per lei un’esperienza ancora di là da venire.
Significativo che la talentuosa barista non abbia badato a portare avanti più di tanto l’evocazione grafica dei personaggi (il Signor Assioma, Madame Metéo, il Signor Paganini, la Signora Duralavita, i Noiosissimi quattro…), affidata solo a rapidi tratti di matita; per lei, a quanto pare, il Bestiario Grosmico raggiungeva sufficiente spessore e incisività attraverso la parola scritta.
La lucidità e l’ironia con cui Elisabetta osserva transitare le persone che per un attimo attraccano al caffè viene con altrettanta dedizione applicata alla riflessione su di sé. L’autrice ha ben chiaro che si potrebbe – ma lei proprio non può – sostare con compostezza nella “sala da pranzo della vita”, al cospetto delle fotografie di famiglia incorniciate, in bella mostra sulla credenza; e analizza quella vera e propria iconografia a partire da una foto in bianco e nero di metà ‘900, le cui figure vengono “ritagliate”, allontanate dal contesto domestico e proiettate su un fondale desolato, dove riescono a vivere solo alberi scheletrici e qualche mostriciattolo dalla dentatura digrignante. Cosa ci fa, quell’essere, in mezzo alle bambine con il fiocco tra i capelli?
Accostabile più alla dimensione fumettistica che ai placidi orrori domestici del Savinio anni quaranta, esso è forse il segnale che la vita può richiedere di confrontarsi con situazioni urticanti, di fronte alle quali bisogna saper reagire, come insegna il Petit Manuel d’autodefense con il quale – a posteriori e con l’efficacia grafica di linee che si rincorrono asfissianti – una bambina di otto anni risponde alle raccomandazioni paterne: mi so difendere da sola.
Quella bambina – forse la stessa che in un disegno fa capolino da un sipario come un esserino fatato dall’interno di un albero – quando si osserva allo specchio da adulta si scopre con i capelli sempre un po’ arruffati: in alcuni monotipi la troviamo alle prese con le mascherine con cui tutti abbiamo dovuto convivere Piccolo manuale di sopravvivenza.
La lucidità e l’ironia con cui Elisabetta osserva transitare le persone che per un attimo attraccano al caffè viene con altrettanta dedizione applicata alla riflessione su di sé. L’autrice ha ben chiaro che si potrebbe – ma lei proprio non può – sostare con compostezza nella “sala da pranzo della vita”, al cospetto delle fotografie di famiglia incorniciate, in bella mostra sulla credenza; e analizza quella vera e propria iconografia a partire da una foto in bianco e nero di metà ‘900, le cui figure vengono “ritagliate”, allontanate dal contesto domestico e proiettate su un fondale desolato, dove riescono a vivere solo alberi scheletrici e qualche mostriciattolo dalla dentatura digrignante. Cosa ci fa, quell’essere, in mezzo alle bambine con il fiocco tra i capelli?
Accostabile più alla dimensione fumettistica che ai placidi orrori domestici del Savinio anni quaranta, esso è forse il segnale che la vita può richiedere di confrontarsi con situazioni urticanti, di fronte alle quali bisogna saper reagire, come insegna il Petit Manuel d’autodefense con il quale – a posteriori e con l’efficacia grafica di linee che si rincorrono asfissianti – una bambina di otto anni risponde alle raccomandazioni paterne: mi so difendere da sola.
Quella bambina – forse la stessa che in un disegno fa capolino da un sipario come un esserino fatato dall’interno di un albero – quando si osserva allo specchio da adulta si scopre con i capelli sempre un po’ arruffati: in alcuni monotipi la troviamo alle prese con le mascherine con cui tutti abbiamo dovuto convivere Piccolo manuale di sopravvivenza.
Tutto è rivelazione, tutto lo sarebbe se fosse accolto allo stato nascente ai tempi del Covid, e che Elisabetta forza a divenire elementi del proprio arsenale clownesco, quasi volesse giocare con le paure di un periodo di ansia privato e collettivo, senza per questo di-
sinnescarne la drammaticità.
In altre opere, la ex bambina gioca con differenti maschere, costruite con tessuti sfilacciati: slabbrato reticolo di segni che evoca un volto; grottesca la sua combinazione di occhi infossati e di bocca spalancata, ma aggraziato il suo stare in equilibrio su un collo sottile, pronto a trasformarsi nelle mani di chi la maschera manovra – come un burattino o marionetta – o sta per indossare.
E maschera, più che autoritratto di una giovane donna, è pure la moltiplicata immagine gorgonica di sé che Elisabetta replica ossessivamente in un collage fotografico. Ne scaturisce, spontaneo, un ricordo artistico Pop: ma, nonostante la fotografia rappresenti un’altra dimensione di ricerca visiva sondata dall’autrice, basandosi su colori saturati all’eccesso per scardinare dal loro contesto anonime architetture urbane, non è certo Warhol il modello delle opere qui riunite, che lasciano piuttosto pensare – ad esempio nelle Bagnanti e in alcuni monotipi – a un occhio di riguardo riservato al primo Picasso, o altrove alle tormentate anatomie di Schiele.
Nei lavori di Elisabetta Bortolin è infatti costante la supremazia della dimensione grafica, che diviene teatro di una sottile geografia erotica nella serie Guêpière – dove i corpi sono percorsi dallo sguardo seguendo le tracce di un reggicalze o smarrendosi nel divagare di lingeries svolazzanti –, ma che può suscitare con altrettanta naturalezza nelle figure la malinconia e il brio di un mondo fiabesco, popolato di uccellini, oche ed asinelli.
Prima di tutto, insomma, c’è il disegno, come dimostra pure la bella serie dei Portraits en ligne: volti costruiti da un tratto che si dipana veloce, al punto che il colore fatica a tenere il passo, e si accontenta di campire le aree che gli rimane il tempo di presidiare. E da una linea continua sono solcati anche i fogli su cui la penna registra, come se cercasse di prendere appunti, nient’altro che il flusso di momenti vuoti e di avvenimenti in dodici ore e
trentacinque minuti di quotidianità: il pensiero divaga, qualcuno bussa alla porta, interruttori si moltiplicano alla parete, libri si aprono e qualcuno li legge, piedi si muovono a spasso nel parco, arrivano parenti di cui restano sulla carta solo palpebre, nasi, bocche ed occhiali.
Tra accelerazioni temporali e spazi di lenta deriva, le ore un po’ noiose della giornata di Elisabetta – ma sarà stata meglio, allora, la nostra? – vengono infilzate come perline, in un pensiero grafico consequenziale quanto arguto. Sono ore che lasciano comunque una traccia, piccoli sobbalzi nella microsismologia dell’esistere quotidiano; ore destinate, tempo dopo, a scivolare in una meditazione visiva più sintetica, fatta di segni ripetuti e tuttavia ribelle alla stagnazione, nelle pagine dei taccuini legate agli ultimi mesi di vita. Un continuo clinàmen.
Alla fine, da una valutazione complessiva dei testi e del lavoro grafico dell’autrice (che non esaurisce comunque la sua attività nelle arti visive, aperta pure, come si è detto, alla fotografia) potrebbe sorgere un senso di rimpianto, riguardo ai risultati che sarebbero stati raggiungibili se le energie di Elisabetta si fossero concentrate in questi settori, rimasti invece a lungo marginali rispetto alla dedizione principale ai linguaggi della teatralità.
Ma credo che plasmare espressivamente il proprio corpo fosse per lei di primaria importanza, essenziale per dare sostanza di fisicità e spessore emotivo alle parole e al disegno. «Per me la pittura è la persona. Voglio che funzioni per me come fa la carne».
Come altro potrebbe giustificarsi la cartografia animale in cui ci proietta la sua Mappa della panza?
Che dal ventre si possano recuperare suggerimenti non istintivi sulla direzione da prendere è l’ultimo paradosso che ci viene proposto e che preserva le opere di Elisabetta – citando un suo lavoro – da un Tombée rapide dans l’oubli.
È la tappa della quiete; il centro non è immobile, ma quieto. E in quiete comincia a entrare quanto lo circonda. Una trasformazione decisiva si è compiuta. Inizia una «Vita nova»
Fulvio Dell’Agnese
sinnescarne la drammaticità.
In altre opere, la ex bambina gioca con differenti maschere, costruite con tessuti sfilacciati: slabbrato reticolo di segni che evoca un volto; grottesca la sua combinazione di occhi infossati e di bocca spalancata, ma aggraziato il suo stare in equilibrio su un collo sottile, pronto a trasformarsi nelle mani di chi la maschera manovra – come un burattino o marionetta – o sta per indossare.
E maschera, più che autoritratto di una giovane donna, è pure la moltiplicata immagine gorgonica di sé che Elisabetta replica ossessivamente in un collage fotografico. Ne scaturisce, spontaneo, un ricordo artistico Pop: ma, nonostante la fotografia rappresenti un’altra dimensione di ricerca visiva sondata dall’autrice, basandosi su colori saturati all’eccesso per scardinare dal loro contesto anonime architetture urbane, non è certo Warhol il modello delle opere qui riunite, che lasciano piuttosto pensare – ad esempio nelle Bagnanti e in alcuni monotipi – a un occhio di riguardo riservato al primo Picasso, o altrove alle tormentate anatomie di Schiele.
Nei lavori di Elisabetta Bortolin è infatti costante la supremazia della dimensione grafica, che diviene teatro di una sottile geografia erotica nella serie Guêpière – dove i corpi sono percorsi dallo sguardo seguendo le tracce di un reggicalze o smarrendosi nel divagare di lingeries svolazzanti –, ma che può suscitare con altrettanta naturalezza nelle figure la malinconia e il brio di un mondo fiabesco, popolato di uccellini, oche ed asinelli.
Prima di tutto, insomma, c’è il disegno, come dimostra pure la bella serie dei Portraits en ligne: volti costruiti da un tratto che si dipana veloce, al punto che il colore fatica a tenere il passo, e si accontenta di campire le aree che gli rimane il tempo di presidiare. E da una linea continua sono solcati anche i fogli su cui la penna registra, come se cercasse di prendere appunti, nient’altro che il flusso di momenti vuoti e di avvenimenti in dodici ore e
trentacinque minuti di quotidianità: il pensiero divaga, qualcuno bussa alla porta, interruttori si moltiplicano alla parete, libri si aprono e qualcuno li legge, piedi si muovono a spasso nel parco, arrivano parenti di cui restano sulla carta solo palpebre, nasi, bocche ed occhiali.
Tra accelerazioni temporali e spazi di lenta deriva, le ore un po’ noiose della giornata di Elisabetta – ma sarà stata meglio, allora, la nostra? – vengono infilzate come perline, in un pensiero grafico consequenziale quanto arguto. Sono ore che lasciano comunque una traccia, piccoli sobbalzi nella microsismologia dell’esistere quotidiano; ore destinate, tempo dopo, a scivolare in una meditazione visiva più sintetica, fatta di segni ripetuti e tuttavia ribelle alla stagnazione, nelle pagine dei taccuini legate agli ultimi mesi di vita. Un continuo clinàmen.
Alla fine, da una valutazione complessiva dei testi e del lavoro grafico dell’autrice (che non esaurisce comunque la sua attività nelle arti visive, aperta pure, come si è detto, alla fotografia) potrebbe sorgere un senso di rimpianto, riguardo ai risultati che sarebbero stati raggiungibili se le energie di Elisabetta si fossero concentrate in questi settori, rimasti invece a lungo marginali rispetto alla dedizione principale ai linguaggi della teatralità.
Ma credo che plasmare espressivamente il proprio corpo fosse per lei di primaria importanza, essenziale per dare sostanza di fisicità e spessore emotivo alle parole e al disegno. «Per me la pittura è la persona. Voglio che funzioni per me come fa la carne».
Come altro potrebbe giustificarsi la cartografia animale in cui ci proietta la sua Mappa della panza?
Che dal ventre si possano recuperare suggerimenti non istintivi sulla direzione da prendere è l’ultimo paradosso che ci viene proposto e che preserva le opere di Elisabetta – citando un suo lavoro – da un Tombée rapide dans l’oubli.
È la tappa della quiete; il centro non è immobile, ma quieto. E in quiete comincia a entrare quanto lo circonda. Una trasformazione decisiva si è compiuta. Inizia una «Vita nova»
Fulvio Dell’Agnese