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L'arte di scrivere d'arte 2011

Quinta edizione

sabato 17 settembre 2011
10:00
Auditorium Centro Culturale Casa A. Zanussi Pordenone

Apertura
Maria Francesca Vassallo
Presidente Centro Iniziative Culturali Pordenone

Introduce e modera
Fulvio Dell’Agnese
Storico dell'arte

Interventi

  • Il re è nudo
    L'arte alla fine della postmodernità

    Federico Ferrari
    Accademia di Belle Arti di Brera

 

  • L'arte nella scrittura di Yves Bonnefoy:
    tra saggistica e poesia

    Fabio Scotto
    Università degli Studi di Bergamo
     

CIò CHE CHIAMIAMO ARTE

“L’Arte di Scrivere d’Arte” compie cinque anni e, senza troppo pensare alle candeline, riprende il filo delle proprie riflessioni sugli aspetti di stile e comunicazione della critica artistica a partire da due prospettive tutt’altro che marginali nell’attuale ridefinirsi dei legami fra arte e società: la constatazione di una proliferante e consapevole vacuità delle creazioni visive e l’ipotesi che un linguaggio critico produttivamente in grado di “guardare fino al fondo del nulla” riveli strette connessioni con la scrittura poetica, con la sua ”capacità di guardare all’oggi sotto forma di eternità”.

A dialogare con il pubblico saranno due voci a più riprese chiamate in causa nelle edizioni precedenti del convegno.
La prima è quella del filosofo Federico Ferrari, docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, le cui pubblicazioni dell’ultimo decennio (e in particolare il recente Il re è nudo. Aristocrazia e anarchia dell’arte) pongono impietosamente all’attenzione del lettore un problema fondamentale: nell’arte contemporanea troppo spesso le opere sono assimilabili a quegli strumenti finanziari che “non hanno in sé una consistenza, […] ma derivano il proprio valore solo a partire da un’altra attività o prodotto […]: derivati artistici che assumono valore spropositato, fondandosi esclusivamente su attività finanziarie di mercato”.
È logico, allora, che i modi della comunicazione artistica coincidano sempre più con quelli del marketing, al punto da giustificare i dubbi sull’esistenza di un ambiguo “sistema di omonimia”, entro cui prende nome di arte sia la riflessione visiva sull’assoluto, sulla gioiosa o drammatica unicità dell’esperienza umana oltre la contingenza, sia il mestiere di chi interviene sull’immagine entro il “contenitore dello spettacolare diffuso globalizzato”, portandola ad assumere “il ruolo di divertissement e passatempo delle élite”. Ed è altresì ovvio che le due differenti pratiche, lessicalmente coincidenti nel termine “arte”, pretendano o almeno facciano percepire come opportuni per la loro lettura critica linguaggi e schemi verbali diversi.
Anche in ragione di ciò è parso opportuno riservare quest’anno specifica attenzione al rilevante peso che i temi artistici hanno sempre rivestito nella scrittura – critica quanto poetica – di Yves Bonnefoy. Una “seconda voce”, la sua, cui il pubblico del convegno sarà introdotto da quello che è probabilmente il maggiore esperto italiano del grande autore transalpino: Fabio Scotto, docente all’Università di Bergamo, traduttore di Bonnefoy e curatore del “Meridiano” a lui dedicato da Mondadori.
La riflessione di Bonnefoy sull’arte – che per lui è quella di Goya, Cézanne, Morandi, Giacometti, cioè di gente che si è spinta dove la realtà si faceva “un abisso, ma del resto anche una pace, un rumore di torrente, indifferente nella sua profondità” – sarà dunque argomento in cui addentrarsi per riesaminare da un ulteriore punto di vista, dopo le tredici qualificate testimonianze degli anni passati (Sandro Cappelletto, Monica Centanni, Enrico Crispolti, Claudio Spadoni; Massimo Carboni, Giorgio Patrizi, Franco Piavoli, Marco Pierini; Fabrizio Borin, Ivan Theimer, Bruno Zanardi; Nicoletta Salomon, Hans Tuzzi), il dilemma della irriducibilità del visibile a parola: “Il critico è nella medesima situazione del poeta, che, cercando nel gioco di suoni e immagini di sfuggire alle reti dei concetti, vi si ritrova alla fine ugualmente imbrigliato a causa delle incontenibili richieste dell’immaginazione e della mente”.
Forse Bonnefoy ha ragione, ma la sua sconfitta gli fa solo onore, proponendosi quale modello di resistenza intellettuale all’imperante processo che si potrebbe definire nei termini di una “produzione di immagini” che si sostituisce alla “creazione di forme”; un processo al quale in Italia più che altrove non possiamo assistere passivamente, perché – come bene scrive Tomaso Montanari – “nella tradizione italiana […] l’arte figurativa non è mai stata un fatto privato, né tantomeno un’evasione nella neutralità morale dell’estetica: almeno quanto la letteratura, l’arte ha invece strutturato e rappresentato il pensiero e l’identità civile del nostro Paese”.

Fulvio Dell'Agnese, storico dell'arte


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