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Il continuo altrove

372° mostra d'arte

da sabato 20 maggio a sabato 22 luglio 2006
Galleria Sagittaria
Via Concordia 7 - Pordenone
Si inaugura sabato 20 maggio 2006, alle ore 18.30, presso la galleria “Sagittaria” del Centro Iniziative Culturali Pordenone, la mostra intitolata “Il continuo altrove”, che presenta le opere dell'artista Brigitte Brand.

 

Tutte le grandi civiltà storiche si sono espresse attraverso capolavori architettonici. Non voglio però dire che solo essi testimonino della profondità e della ricchezza di una elaborazione culturale - che può essere durata secoli o millenni, e basterebbe pensare, oltre che all’India, all’Egitto o alla Cina. Le grandi letterature, poetiche o musicali, hanno certo la stessa capacità, ma poi anche molti esempi di arti applicate sono in grado di raccontare visivamente di mirabili raggiungimenti, e basterebbe pensare alla miniatura, al mosaico o all’orificeria. Tuttavia l’architettura può possedere un’imponenza, spaziale e costruttiva, tale da rendere immediatamente percepibile a tutti una “grandiosità” ideale, che poi naturalmente trova modo di esprimersi anche in versanti più nascosti e raffinati, e quindi per questo anche meno conosciuti: dall’intaglio su avorio, per dire, al ricamo su tessuti o alla decorazione delle stoviglie.
Una grande civiltà, in genere, ha un suo fulcro unitario che costituisce polo d’attrazione, e che media e riconduce a un determinato ordine anche tutte le innovazioni che nel corso della storia si producono, per eventi economici politici e sociali che non cessano di modificare l’esistente. Alla fine, il segno più chiaro e percepibile di tutto questo è appunto la grande costruzione, anche perché molto spesso essa riconduce a sé, come elemento necessario e non semplicemente decorativo, altre arti, quali in particolare la scultura e la pittura. Per fare un unico esempio, il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna non è certo pensabile come puro manufatto, senza la sua straordinaria decorazione interna. Se dunque la grande costruzione architettonica ha tanta capacità evocativa e testimoniale, si può allora meglio comprendere quanto sia stato arduo il problema che Brigitte Brand si è trovata davanti, quando ha cominciato a tracciare i suoi disegni e a impostare i suoi quadri sulle impressionanti architetture, templi, grotte, pozzi, complessi religiosi indiani, che ella ha via via conosciuto ed esplorato nel corso dei suoi viaggi in quel grande paese. Perché non si trattava semplicemente di “rappresentare”, di “raffigurare”, magari anche abilmente, determinati scorci o tagli di paesaggio architettonico, o di edificio: molto di più, si trattava di evocarne la “densità” antropologica, di far rivivere l’impatto di meraviglia, sopresa, fascinazione, al contatto di una civiltà certo non sovrapponibile a quella occidentale, e però ricchissima di suggestione umana e culturale. Insomma, si trattava di riuscire a trasmettere quel senso di meravigliato stupore che sempre la grande arte è in grado di suscitare non solo, si badi bene, per l’eccellenza tecnica che mette in evidenza, ma perché attraverso tale eccellenza essa mette in moto identificazioni, comprensioni e autocomprensioni che sono il suo più glorioso risultato, perché sono un risultato che fa cadere barriere, che produce correnti di vera comunicazione. Come riesce, Brigitte Brand, a trasmettere questo stupore, che è anche felicità della scoperta, gioia di un nuovo possesso culturale – dato che ci riesce, a mio giudizio, straordinariamente bene? Anzitutto, credo, per l’efficace naturalezza con cui trasmette il senso degli spazi interni, del concrescere che fanno queste”grotte”, questi templi attorno ad un punto che è, in realtà, non un punto fisico, ma il luogo dove si trova lo spettatore, cioè il “fedele”, cioè la persona che di volta in volta riscopre la magia “religiosa” o comunque comunitaria di cui queste aree architettoniche sono connotate. Questo è per esempio assai evidente nella raffigurazione del Tempio Menakshi, Madurai, davanti alla quale chi guarda è investito come di un effetto avvolgente, da camera da presa cinematografica: lo spazio ti chiama dentro, e ti mette a contatto con la potenza di un’architettura tuttavia ariosa e ricca di luce: un effetto barocco, se vogliamo, peraltro perfettamente adeguato al tema. Che se poi volessimo ulteriormente usare questo aggettivo - non sbagliato, a mio parere - potremmo allora riferirci alla forza “ribollente” con cui è raffigurato il Tempio Pandia, Kalugumalai, dove è lo spazio esterno ad essere definito in tutta la sua ondosa ricchezza di luci e ombre, con un effetto che è vivamente pittorico senza aver nulla di pittoresco; mentre lo spazio avvolgente ritorna, affascinante, nella raffigurazione di Baoli, Patan, con la sequenza fugata di colonne e archi ribassati, e con la finissima allusione alle decorazioni parietali. E anzi, proprio il riferimento a queste “allusioni” figurative ci permette di sottolineare un altro degli elementi vincenti nella tensione dell’artista verso una figurazione che sia sì ricca, ma non superficialmente fastosa. E’ un elemento definibile in negativo, cioè il fatto di aver decisamente evitato ogni tentazione narrativa - pure, io credo, presente all’attenzione dell’artista, nell’osservazione certamente insistita sui partiti decorativi che sono di sicuro non poca parte del fascino di quelle costruzioni -; tale tentazione infatti avrebbe potuto minare proprio quel potente senso di unità, che nei dipinti viene di fatto reso attraverso l’intuizione dello spazio. La quale unità perdura anche in certi panorami, o vedute d’insieme – come per esempio quelle di Hampi – che sono nitidamente bloccate in aura conclusa, bastando la dovizia anche solo accennata delle strutture architettoniche – e la raffinata, vibratile tonalità cromatica di fondo - a chiudere l’attenzione su uno spazio che viene subito avvertito come privilegiato spazio della meditazione. E c’è infine un’altra scelta vincente, anche se certo non tecnicamente nuova nell’arte contemporanea: la scelta, cioè, di operare pittoricamente su un fondo costituito dalla minuta grafia di pagine di giornali indiani, non tanto, va detto, perché siano indiani – anche se non si può del tutto trascurare il fatto che si tratta di una grafia straniante in rapporto alle nostre abitudini -; ma perché il fondo stampato, con le sue righe grandi e piccole, con il suo ritmico addensarsi di spazi più neri e spazi più chiari – il tutto, ovviamente, non certo messo a caso - aggiunge un elemento di irrealtà antinaturalistica utilissimo, anche se non ce ne accorgiamo subito, ad allontanare ulteriormente l’impressione che si tratti di “normali” paesaggi, di normali “vedute”, di normali “interni”. Perché invece si tratta di “scoperte” intellettuali e morali, oltreché di grandi splendori visuali. Io non sono mai stato in India, e quindi non ho mai visto le meraviglie di cui Brigitte Brand ci parla in questa mostra. Ho bensì sfogliato parecchi libri d’arte, ho visto, anche in grande formato, molte riproduzioni fotografiche. Niente che possa lontanamente paragonarsi all’emozione suscitata dalle “visioni” della Brand. Se mai andrò in India, non sarà certo perché ho visto quelle fotografie, ma perché invece ho visto questi quadri.
Giancarlo Pauletto
 

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