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FRANK DITURI. DELLE COSE NON VISTE

416° Mostra d'Arte

da sabato 14 settembre a domenica 17 novembre 2013
Galleria Sagittaria Pordenone

“… Sono stato il primo nato in America della mia famiglia di immigrati italiani, che si stabilirono a New York dopo la seconda guerra mondiale. Ho vissuto la mia vita a cavallo tra due culture…”.
“(...) La fotografia di Frank Dituri testimonia il suo credere fermamente nelle qualità essenziali e mistiche della vita. Le sue foto sono evocative e rivelatrici. A volte celebrano la realtà tramite la registrazione meticolosa di fenomeni naturali. Tuttavia, nelle ultime decadi, la maggior parte dei suoi lavori è caratterizzata da un’illuminazione misteriosa, da una messa a fuoco morbida, offuscata in modo suggestivo. Le immagini sono belle e silenti, ma raramente statiche. (…)”
David A. Lewis

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Frank Dituri vive e lavora tra Italia e New York. Le sue opere sono esposte negli USA, in Europa e in Asia. Di notevole importanza in Italia sono state le mostre personali alla Biennale di Venezia, al MOMA di Mosca e al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ha pubblicato numerosi libri ed è stato recensito in molte pubblicazioni di prestigio. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. È stato insegnante artista nel contesto del programma LTA del Guggenheim Museum di NY. È attualmente impegnato nel dipartimento d'arte della Libera Accademia di Belle Arti di Firenze
 

Le immagini di Frank Dituri partono da dati visivi che non hanno, di per sé, particolari attrattive, quindi non vengono selezionate dall’obiettivo per una loro speciale pregnanza, per un interesse che oggettivamente – esteticamente, pittorescamente – possa richiamare l’attenzione.
Un orizzonte lontano, leggermente concavo, in cui si toccano una prateria scura e un cielo grigio, al centro una sequenza di piccoli segni verticali, forse pale eoliche, forse sostegni della luce, non si può distinguere.
Nella prateria si legge la minuta tappezzeria dell’erba, lo spazio fortemente rettangolare accentua la lontananza , e una sorta di enigmatica sospensione, pur nella definita precisione dei particolari.
Una precisione che si legge, minuta, anche in altre foto: in formato quadrato, un bosco invernale che si riflette in uno stagno, o forse nel letto allargato di un fiume. Anche qui sono a fuoco tutti i particolari, i sassi, i singoli rami, tutti i riflessi nell’acqua.
Tuttavia una precisione che, invece di generare un massimo di realismo, genera – per irresistibile contrasto con la totale ferialità del soggetto - un massimo d’irrealtà, la sensazione di stare in un luogo completamente sconosciuto e per la prima volta visto, quasi un luogo alieno.



Ed è opportuno insistere, perché in questo toccare la realtà in quanto realtà, in quanto puro e semplice essere è il cuore della fotografia e dell’arte di Frank Dituri: che scava sotto le apparenze perché non vuole che l’immagine si disponga secondo modi suggeriti dall’ormai lunga tradizione della cultura fotografica, e cerca uno sguardo vergine , cioè uno sguardo ancora capace di meraviglia.
Così il semplice e morbido profilo di una collina e, svettanti su essa, due pali della luce leggermente inclinati l’uno verso l’altro, come in dialogo, diventano un’epifania in cui realtà naturale e realtà costrutta, natura e storia non cessano d’interrogare la coscienza del riguardante, riportandolo a questioni essenziali, sottraendolo al rumore di una civiltà che rifugge dall’essenziale perché sull’essenziale ha paura di interrogarsi.
E ci sono, per converso, le altre immagini, quelle cioè giocate sulla sfocatura e sul movimento in cui volutamente il fotografo, perdendo la precisione definitoria, intende simbolicamente perdere quella sorta di certezza dogmatica, utilitaria, che è quella che ci rinchiude nel circolo chiuso della banalità quotidiana e proprio per questo impedisce l’avvicinamento all’essenziale.
In questo modo la strada notturna di una qualunque cittadina umbra, o italiana – l’autore divide la sua vita tra Italia e Stati Uniti – diventa un luogo misterioso impregnato di luce dorata, e la banalissima porta finestra che si trova in cima ad una rampa di scale diventa un paesaggio che dà su luci incognite.
Entra in queste immagini spesso il colore, ma anche qui: si tratta di un colore che non ha nulla in comune con quello cui siamo abituati nelle quotidiane esperienze visive, è un colore che pur prendendo spunto da ciò che vediamo nella natura e nella città, si trasforma, attraverso il lavoro del fotografo, in una patina preziosa che toglie peso e volume, e pur non nascondendo la realtà, ne suggerisce la cifra metafisica che è nella sensibilità e nella mente dell’autore.
Nella sensibilità e nella mente, sono parole che vanno sottolineate.
Non sarebbe possibile altrimenti mettere al centro dell’interesse estetico – ma l’interesse estetico si confonde continuamente, in Dituri, e per le ragioni cui abbiamo accennato, con l’interesse etico – una casistica visiva talmente ovvia da essere, appunto, pressoché invisibile e quasi sempre non vista: i fili d’erba di un campo, un profilo collinare, una figura in una piazza notturna, un busto d’uomo col cappello, di spalle, davanti alla luce di una finestra, una figura qualunque in una piazza qualunque che però diventa subito una piazza metafisica, una figura umana che si muove accanto ad una pila dell’acqua santa immersa in una sorta di azzurro celestiale, un bosco verde-oro immerso in una nebbia chiara, e si potrebbe continuare a lungo.
Il fatto è che, nella mente e nella sensibilità di Dituri, il “qualunque”, il “banale”, l’abitudinario e l’utilitario non esistono, poiché tutto, proprio tutto, sta nella luce e nell’ombra dell’interrogativo metafisico.
Nella luce perché un atteggiamento simile non può che essere apertura e dialogo, verso la natura e verso il mondo; nell’ombra perché questa apertura non può tuttavia negare il dolore e la prova attraverso cui passano le esperienze umane.
Io credo che anche per questo ritornino spesso nel lavoro dell’artista immagini legate alla tradizione religiosa, le chiese, i crocifissi, le Madonne col Bambino: non come affermazione di dogmi, ma come segni storicamente concreti di una posizione culturale, la posizione di chi cerca l’essere nel transeunte, l’aspirazione all’eternità nel tempo.
Del resto, le immagini parlano chiaro, e ne citeremo ancora una per tutte: Pillars, Venezuela, 1994.
Un uomo anziano, a schiena nuda, di spalle, compreso tra due montanti che potrebbero essere dei sostegni o cos’altro, ma che qui hanno esclusivamente funzione compositiva, guarda fissamente un’immensità scura che è facile percepire come oceano.
La foto è squadratissima, e nello stesso tempo assolutamente non rigida: a questo scopo serve la leggera sfasatura con cui il corpo dell’uomo è inquadrato tra le due “colonne”, più vicino a quella di sinistra che a quella di destra; serve la divisione dello spazio tra acqua e cielo, meno esteso quello del cielo; serve soprattutto la presenza molto fisica del corpo, il peso del volume, la calvizie, la corona di capelli bianchi sulla nuca: tutto indica la presenza di un vivente che interroga mutamente l’immutabile, cioè un’immagine di eternità.
La filosofia di Dituri si esprime qui non direi più chiaramente, ma più esplicitamente che in altre immagini e mostra, pur nella sua forza originale, di saper accogliere la sostanza classica della tradizione figurativa, il suo invito ad un ordine, senza il quale neppure l’espressione dell’interrogativo metafisico sarebbe possibile.
E’ questo un dato che possiamo constatare anche nelle sue immagini più mosse, più problematiche, più spinte - come è ovvio che accada nel corso di una ricerca tanto radicale del non visto – verso l’oltranza del problematico, come è per esempio in certe fantasmatiche immagini di natura, siano esse realizzate a colori o in bianconero.
Si tratta tuttavia di immagini che non accettano mai il caso, il puro imprevisto dell’istintualità, la totale decomposizione dei rapporti.
Sarà forse per questo che, alla fine, la sensazione più forte che rimane nel riguardante - o almeno nel riguardante che scrive - sia che l’occhio di Dituri cerchi una sorta di impersonalità, uno sguardo alto che, lungi dall’essere indifferenza, è invece amorosa e perfino lancinante cura di ogni dato di realtà che entri nelle coordinate della sua esperienza umana.

Giancarlo Pauletto

 

Il Momento - Giugno 2013 114.6 KB
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