Una storia a regola d'arte
Artisti e collezionisti per i cinquant'anni
della Galleria Sagittaria
426a mostra d'arte
dal 29 novembre 2014 al 8 febbraio 2015 |
Galleria Sagittaria Pordenone |
Si intitola “Una storia a regola d’arte” la grande mostra, curata da Giancarlo Pauletto, che si aprirà Sabato 29 novembre al Centro Culturale Casa Zanussi. Opere inedite donate da artisti e collezionisti
Sono previsti laboratori per le scuole (dal 19 al 23 gennaio 2015) e visite guidate per gruppi.
In Galleria a disposizione uno speciale catalogo con: la testimonianza di Luciano Padovese fondatore della Casa nel 1965, che riportiamo qui di seguito, e un saggio critico di Giancarlo Pauletto, curatore della mostra.
Un volume di 120 pagine con oltre 150 illustrazioni di cui più di 100 a colori.
di Luciano Padovese
Ho voluto rivedere certi carteggi che riguardano gli inizi della mia lunga avventura alla Casa dello Studente di Pordenone. Essa ha preso il via con il mio trasloco dal Collegio Marconi di Portogruaro all’edificio di Via Concordia il 15 Settembre del 1965. Un edificio non ancora finito; una tavola sul fango – pioveva – per attraversare il passo d’ingresso ancora provvisorio; pranzo fuori Casa per due settimane perché ancora nessun servizio era partito né personale aveva iniziato il lavoro. Tutto provvisorio anche se in breve si ebbe l’invasione di studenti e l’avvio entusiasta di molte attività aperte alla città di Pordenone e a tutto il territorio, non solo della Destra Tagliamento.
Questo perché il lavoro di programmazione era partito quando il Vescovo di Concordia Vittorio De Zanche nel settembre di un anno prima, 1964, dalla sua residenza in Roma, dove alloggiava per il Concilio Vaticano II, decideva per me la nuova destinazione, anche sollecitato da Lino Zanussi che aveva fatto costruire la Casa, e che voleva capire cosa si sarebbe fatto di essa. E qui i carteggi fanno memoria di una mia resistenza, a dire il vero un po’ coraggiosa per quelli anni da parte di un giovane prete nei riguardi del suo superiore. Da approcci precedenti con i vertici della Diocesi, infatti, avevo capito che si trattava di gestire un ambiente studentesco, soprattutto negli orari meridiani. Organizzare servizi recettivi, per distogliere una gran massa di giovani dal vagabondare, senza un punto di riferimento e accoglienza, per strade e bar in attesa di riprendere lezioni postmeridiane.
Ero d’accordo sulla necessità di offrire tale servizio al mondo scolastico di Pordenone, ma avevo anche altre convinzioni. Le nuove arie che venivano dal Concilio e da me respirate con entusiasmo prima a Roma con i Gesuiti della Gregoriana, dove avevo compiuto i miei studi, poi con qualche anno di laboratorio culturale in quel di Portogruaro, dove il Vescovo mi aveva destinato, mi aveva dato una visione assolutamente diversa del modo in cui accostare soprattutto i giovani. Così iniziai a tracciare un identikit di un Centro Culturale che, pur essendo primieramente studentesco, doveva nel contempo aprirsi a tutta la società; per un confronto di generazioni, nell’intento di puntare a un amalgama di città (nel senso di “civitas”, cioè di nuova civiltà) che allora non prevedeva immigrati da fuori Italia, bensì sperimentava forti miscelature di famiglie da tutto il Paese per il richiamo di una industrializzazione che nella Città del Noncello segnava un esploit clamoroso soprattutto per le Industrie Zanussi, Savio e Locatelli.
L’idea piacque al Vescovo, anche lui, nonostante l’età un po’ avanzata, entusiasta delle nuove idee del Concilio; piacque a Lino Zanussi e al suo amico Luciano Savio, incaricato a seguire da vicino l’avvio della nuova esperienza. Piacque, per fortuna, a certi politici che attraverso la nuova esperienza di amministrazione regionale arrivarono a produrre una legge sulla cultura in cui si rispecchiavano diversi criteri anche da noi sostenuti: l’impegno pubblico e privato messo insieme; la visione di un Centro, aperto a tutti gli aspetti della cultura, concepita come formazione permanente; il superamento di certe visioni elitarie circa la frequentazione dell’arte; il focus di tutto centrato sull’idea di dialogo aperto e di bellezza.
E, a proposito di questo, era un sogno che mi accompagnava da quando ero poco più che adolescente. Portare l’arte a contatto con tutti, nell’idea che la bellezza sarebbe stata fondamentale in un progetto educativo e formativo. Una bellezza espressa da artisti con le loro opere che avrebbero dato tono a qualsiasi ambiente d’incontro tra generazioni. Una idea alimentata soprattutto dalle esperienze di mostre d’arte che nella mia città natale, Portogruaro, avevano richiamato molti artisti: alla Galleria Pilsen, prima, e poi nel posto magico dei Molini sul Lemene ove ancora la nostalgia mi porta per quelle emozioni condivise con mio fratello Ugo che, giovanissimo, aveva iniziato a fare il giornalista e scriveva su più di un giornale le sue critiche molto puntuali, e per me stimolanti, spesso accompagnate da interviste agli artisti che così imparai ad accostare, come dire?, di traverso.
Avevo un culto per questi personaggi, io che non ero mai riuscito bene nel disegno, ma che ero sempre affascinato dagli antichi quadri delle varie chiese della mia infanzia.
Gli artisti come gente straordinaria. E così cominciai anch’io, ventenne, a scrivere su qualche artista quanto capivo e provavo davanti alle sue opere, anche intervistando, documentandomi, visitando lo studio (ricordo bene quello di Mario Pauletto), prima di certe mostre, e provando qualcosa che non saprei descrivere se non appellandomi al fascino della bellezza. Così non saprei dire cosa provai quando potei leggere sul giornale un mio articolo, firmato con lo pseudonimo Lucio Romazio, a commento della mostra bellissima del futurista portogruarese Luigi Russolo, ordinata nella sala superiore del Cinema Teatro Sociale di Portogruaro, negli anni cinquanta.
Arte e bellezza, per un ambiente che doveva distinguersi dai soliti spazi giovanili, un po’ sempre sporchi e disordinati. E così curai, fin dagli inizi, assieme a corresponsabili e collaboratori, pulizia e ordine in tutti gli ambienti, benché fossero molte centinaia i frequentatori quotidiani della Casa, e cominciai a collocare qualche quadro, allora di mia proprietà, sulle pareti. Una prospettiva di bellezza che aveva anche un progetto ben preciso. Lo leggiamo nelle pagine ciclostilate dove avevo steso, anche con l’aiuto del giovanissimo Giancarlo Pauletto (e un prezioso contributo di informazioni raccolte sul territorio da Umberto Doretto), la linea programmatica della Casa che avevo dovuto presentare ben prima della sua apertura, al gran Giurì (De Zanche, Zanussi, Savio) che doveva giudicarmi, per darmi il via libera.
Si trattava di dar vita anche a una Galleria d’arte – e ne avevamo individuato la prima collocazione in una sala molto luminosa dell’edificio ancora incompleto e senza arredi – per delle esposizioni che avrebbero dovuto essere caratterizzate dalla qualità. Avremmo operato in provincia e dalla provincia, ma non in maniera provinciale: questa la nostra scommessa e il nostro sogno che forse avrebbe potuto apparire presuntuosa. Non dovevamo, quindi, essere acritici o giovanilisti, ma, al contrario, dovevamo andare controcorrente rispetto al pullulare di manifestazioni che appartenevano al menù di varie sagre paesane con esposizioni talora da piangere. Ma controcorrente specialmente con i soloni museali d’allora che subito espressero anche sulla stampa locale il loro scandalo per il progetto di portare l’arte seria, di professionisti affermati oltre che di giovani molto promettenti, sulle pareti di una casa destinata a una quotidianità vissuta da tantissima gente.
Mi ricordo, tuttavia, con riconoscenza del bel gruppo di veri protagonisti culturali della regione Friuli Venezia Giulia che si schierarono con me e con i corresponsabili della Casa, con convinzione ed entusiasmo. E fu così che la prima mostra, preparata nei primi mesi di apertura della Casa e realizzata nel febbraio 1966, ebbe per protagonista Giancarlo Magri, giovane pittore emergente, presentato da Don Piero Nonis, la personalità culturale più rilevante in città. Una esposizione partecipata nel giorno dell’apertura da centinaia di convenuti con anche molte autorità, diversi giornalisti, numerosi appassionati e tanti giovani. Un vivo momento di consenso che non smise mai di accompagnare le quasi cinquecento mostre che da allora si susseguirono ininterrottamente fino ad oggi.
Mostre che segnarono il passaggio di artisti anche famosi, ben oltre i confini regionali, spesso presentati da critici molto noti e importanti, pure presenti in dibattiti e convegni che spesso accompagnarono le nostre mostre. Si affermò, così, la Galleria che quasi subito si chiamò “Sagittaria”, un nome che uscì anche dal confronto tra personaggi come Renato Appi, Bruno Malattia, Isidoro Martin e altri. “Sagittaria”, per il nome della breve via in cui c’è la sede del Centro, ma pure per il significato di slancio, di energia propulsiva che poteva collegarsi a tale denominazione che finì per essere ben conosciuta in Italia e anche in importanti realtà artistiche dell’estero.
Dalla sala, con atrio annesso, della partenza, si dovette passare ben presto agli ambienti molto più vasti e centrali – gli attuali – a partire dalla grande antologica di Armando Pizzinato (1971), che subito si legò con burbero affetto alle nostre sorti, grato anche di aver segnato con il suo rientro pordenonese un rilancio rilevante per il suo cursus di grande artista.
Già prima di lui avevano esposto sulle pareti della prima sede della Galleria, al piano seminterrato della Casa, i principali artisti della regione Friuli Venezia Giulia. Ed è così che entrammo in contatto personale prima con Tramontin, Moretti, Giannelli, Bordini, Rossi, Polesello, Florian, Bottecchia, Guerra e altri artisti pordenonesi e quindi con tanti che sembravano inarrivabili: Zigaina, Masherini, i tre fratelli Basaldella, Dino, Mirko e Afro, Spacal, Chersicla, Marangoni.
Per me, giovane prete, che avevo avuto la fortuna di vivere a Roma qualche sodalizio ecclesiale importante ma diverso, si trattò di aprirmi a un fronte nuovo. Personalità di ideologie diverse, il cui nome mi incuteva timore, diventarono familiari e amiche, rendendo possibile una frequentazione culturale ulteriore e preziosissima. Decisivo l’incontro, mediato da Paolo Rizzi, con Cadorin, che portò alla vernice della sua antologica il poeta Ezra Pound; e poi il grande zagabrese Edo Murtic, le cui diverse presenze alla Sagittaria segnarono vere iniezioni di fiducia, oltre che arricchirci di tante e preziose sue opere piene di eccezionali vitalità; e pure costituì una sorta di carta di identità per scambi importanti pure con il Rupertinum di Saisburgo oltre che con varie Gallerie iugoslave. La generosità, poi, del collezionista Deana che offrì i suoi tanti capolavori per una mostra memorabile; la fiducia di Francesco Muzzi, custode appassionato del patrimonio artistico di Cagli, che, per la mediazione di Giuseppe Bergamini, rese possibile una serie di esposizioni di grandi opere dell’arte italiana moderna; fino alla collaborazione con GioBatta Meneguzzo del Museo Casabianca di Malo.
Incontri, poi, mediati da Getulio Alviani, con le opere di Delonay, Capogrossi, Fontana, Squatriti e altri grandi artisti italiani e stranieri. Di particolare segno le molteplici e generose collaborazioni con Franco Dugo, Nane Zavagno, Anzil, Cagnolini, Ciussi, Giorgio Igne e pure il veneziano Gianquinto; le mostre fotografiche anche straordinarie grazie alla generosa amicizia di Italo Zannier, Elio Ciol e Guido Cecere. E infiniti altri artisti, le cui esposizioni furono spessissimo inventate, e per lo più costruite e presentate dal critico Giancarlo Pauletto, gestite da tanti anni da Maria Francesca Vassallo, con la corresponsabilità del sottoscritto e di Laura Zuzzi e l’apporto di numerosi altri operatori della Casa.
Luciano Padovese
Rassegna stampa
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IlGazzettino 22nov2014_pagXXXII | 726.2 KB | |
MessaggeroVeneto 22nov2014_pag31 | 1.4 MB | |
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Cento artisti per i 50 anni della Galleria Sagittaria Pordenone | 631.8 KB |