Immagini del presente
Edizioni d'arte - Serie quadrata N. 87
Non è difficile esporre le ragioni più evidenti che ci hanno indotto a pensare, per la mostra che questo catalogo testimonia, il titolo “Immagini del presente”.
Essa infatti porta nelle sale della galleria Sagittaria un gruppo di giovani artisti, che sono qui con opere degli ultimi anni, e quindi esse appaiono immagini del presente anzitutto per l’immediata e ovvia ragione che non si riferiscono ad un tempo che si possa definire passato, mettiamo di venti, trenta, quarant’anni fa.
Sono, anche, immagini del presente perché stanno tutte in presa diretta con la realtà, sia, per così dire, nell’oggettività di certe raffigurazioni – pensiamo, per esempio, alle fotografie indiane di Mittica -, sia anche nella soggettività di certe interpretazioni – e qui mi riferisco, ancora per esempio, al trattamento espressivo dei ritratti di Martini, chiaramente esemplato su declinazioni espressioniste che non sono mai veramente passate di attualità, e che oggi sono ancora del tutto pertinenti.
D’altro canto è anche vero, parlando in generale, che molta arte giovane di questi tempi si è riappropriata della figurazione come strumento espressivo essenziale, sentendola e trattandola come veicolo ancora in grado di parlare del presente dell’uomo e della natura, delle loro possibilità e del loro – incerto – destino. Questo dato introduce ad un ulteriore modo - forse meno immediatamente visibile, ma certo importante per le sue implicazioni culturali - secondo il quale possiamo definire “immagini del presente” quelle che questa mostra ci mette davanti.
Si tratta del fatto che tutte, dalle incisioni di Furlan alle sculture di De Martin Topranin, alle foto di Mittica, alle pitture di Martini e fino alle invenzioni “creative” di Silvia Pignat, stanno dentro una tradizione, sono cercate e specificamente atteggiate a partire dalla conoscenza dei segni, degli spazi, delle figure del passato, si incardinano
in una densità culturale che diventa in effetti la loro prima nobiltà: sono del presente proprio perché si sono costruite sulla sapienza del passato.
Che è anche l’unico modo di essere veramente nel presente, perché si può essere nel presente solo in maniera consapevole, riflessa, così come si può sapere di essere sul tetto di una casa solo se si ha un’idea di cosa sia una casa, fondamenta, muri e tetto. E la sapienza che si ricava da questa consapevolezza non è solo sapienza tecnica.
È verissimo che ognuno di questi artisti, per quanto ancora in giovane età, è ricco di un curriculum di studi che si leggerà facilmente nelle note biografiche, e che spiega una già raggiunta – anche se ovviamente sempre approfondibile - capacità tecnica, ma dalla cultura essi ricavano non già soltanto un modo, una declinazione, una concoscenza di mezzi, ma anche il dato essenziale che ogni cultura trasmette, l’idea cioè che l’interpretazione è necessaria, che la realtà cui ci si pone davanti è un groviglio di domande, e che a queste domande si può anche tentare una risposta, o magari viene naturale e spontaneo tentare una risposta.
Non vogliamo essere equivocati, non intendiamo dire che questi artisti vadano letti e compresi come artisti “impegnati” – così si diceva mezzo secolo fa -; cioè come artisti che hanno delle tesi da dimostrare e degli insegnamenti da trasmettere - anche se poi, in tutto ciò, non ci sarebbe niente di illegittimo, visto che alcuni tra quelli che sono ritenuti i più grandi capolavori dell’umanità si sono costruiti esattamente su queste intenzioni, diciamo per esempio la Divina Commedia, diciamo la Cappella Sistina; sicuramente questi artisti non sono stati scelti per questa ragione, non formano alcun gruppo, rispondono solo della loro presenza e dei loro specifici risultati.
Sarà tuttavia legittimo notare come, diversi nei linguaggi e negli esiti, interessati a tematiche differenziate, sono tuttavia apparentabili per una reale e secondo noi chiaramente rilevabile convergenza: essi si atteggiano davanti al loro e nostro presente in modo non semplicemente formalizzante, separato, oppure idillico, ma al contrario in modo coinvolto, problematico, interrogante.
È semplice verificare quanto si va dicendo in rapporto alle fotografie di Pierpaolo Mittica. Fotoreporter freelance, Mittica è il meno giovane degli artisti presenti ed ha alle spalle un curriculum ormai di tutto rilievo, nel quale spiccano la mostra da lui realizzata per il ventennale di Chernobyl e il premio Friuli Venezia Giulia Fotografia ottenuto nel 2006. La sua fotografia, nutrita certo dallo studio dei grandi maestri del reportage, è, come appare dalle immagini esposte, del tutto interpretativa e testimoniale, la formalizzazione, che pure è ricercata con perspicuità, appare sempre al servizio di ciò che, con termine oggi desueto ma sempre significativo, possiamo definire “messaggio”.
E il messaggio s’incardina nell’osservazione di un’umanità poverissima, abbandonata, derelitta eppure ancora piena di presenza e di forza.
Noi riteniamo tuttavia che il vasto ambito della comunicazione visiva – che comprende, per esempio, tutto il settore della cosiddetta grafica pubblicitaria, oltre che quello dell’illustrazione, della confezione di prodotti e di quanto altro a questi settori è pertinente – sia piuttosto trascurato nella discussione estetica abituale, e siamo dunque contenti che un’operatrice di questo ambito sia presente nella mostra.
Al di là della sua importanza sociale, esso ha dato e dà continuamente vita a invenzioni soprendenti per definizione e densità culturale, trovandosi oltre tutto a doversi quotidianamente confrontare con scelte non sempre di poco conto. È un settore insomma, nel quale la dipendenza dal sociale può produrre non necessariamente un di meno, ma anche un di più di attenzione etica.
Silvia Pignat ha un senso chiaro dello spazio e netta sensibilità alla modulazione di un colore che sia servizio alla comunicazione e al racconto. Le sue immagini ricevono forza, non inciampo, dal loro scopo pedagogico.
Un accenno soltanto a Fabiano De Martin Topranin e a Tiziano Martini, poiché di essi parla, nello scritto che segue, Gianluca D’Incà Levis, il curatore che li ha compresi nella recente ed importante mostra di Palazzo Crepadona a Belluno.
Vale anche per essi – a nostro giudizio – quanto scritto nella prima parte di questa introduzione, cioè il loro evidente partecipare ad un clima di attenzione alla realtà, che è intriso di domanda e di riflessione, come si vede nelle sculture “esistenziali” di De Martin Topranin, e nelle pitture sospese ed essenziali, talvolta lancinanti, di Martini.
Né ci pare il caso di aggiungere parola a quanto D’Inca Levis scrive a proposito di marginalità e virtù degli ambiti periferici. Sono idee che sostanzialmente condividiamo, e in base alle quali abbiamo sempre cercato di agire.
Giancarlo Pauletto
![]() |
colophon.pdf | 70.0 KB |