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SALA STAMPA

Metafore dure che impediscono deviazioni consolatorie.
Un artista fedele alla sua ossessione.
Se l’arte non si impegna sull’essenziale, su cosa dovrà impegnarsi? Da Sabato 12 settembre alla Sagittaria del Centro Iniziative Culturali Pordenone.

La metafora attraverso la quale Bruno Aita racconta la nostra condizione di contemporanei è alla fine molto semplice, si riassume in un titolo che torna spesso tra quelli che egli attribuisce ai suoi lavori: “Boschi senz’aria”.
È una metafora semplice e molto dura, perché non lascia scampo, impedisce qualsiasi deviazione consolatoria.

Bruno Aita

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Fa pensare anzitutto al miracolo dell’atmosfera, sottilissimo strato vitale entro cui tutto vive, oggi minacciato da una serie di pericoli che non sono più soltanto quelli legati alla generale vita dell’universo – eruzioni soffocanti, meteore che impattano con la terra o simili – ma anche quelli determinati dalla disperante incapacità della specie umana a concordare almeno su alcuni essenziali modi di comportamento, affinché non sia il nostro stesso “stile” di vita a produrre quei disastri irreparabili, sui quali ognuno che legga i giornali è già ben informato.
Ma poi la metafora può anche riferirsi alla mancanza di un altro genere d’aria, cioè all’aria della comunicazione, a quel vitale tessuto di parole, di dialogo, di volontà di comprensione, senza il quale anche la nostra vita rischia l’estinzione, allora se non per via fisica, certo per via psicologica e morale.


Le figure, i “teatri” che Aita inscena sulle sue grandi carte ci presentano elementi che lasciano lavorare la nostra mente in ambedue le direzioni, dato che certamente l’una non esclude l’altra, se è vero che ciò che è fisico condiziona sempre ciò che è psicologico e morale.
I “teatri”, dicevo: perché le immagini di Aita, che partono comunque da una base naturalistica, deviano subito verso la “scenografia”, la metafora appunto, il discorso simbolico, e quindi l’implicita presa di posizione morale.
Qui giova chiarire, perché non vorrei che la parola “scenografia” venisse interpretata con riferimento ad un che di spettacolare, e quindi in qualche misura di retorico, di forzato.
È vero esattamente il contrario, è proprio l’impianto scenografico che rende importante, voglio dire esteticamente “pieno”, l’impatto dell’opera: perché esso mette appunto in primo piano, com’è suo compito, il senso profondo del discorso di Aita, che è un senso d’allarme.
Allarme che viene, in fundamentis, dalla commistione di naturale e artificiale.
Nel grande bosco verticale che lascia filtrare dal fondo una luce d’alba, o forse semplicemente l’unica luce possibile in una terra desolata, penetra un grande tubo, proveniente non si sa da dove, e porta il tanto d’aria che rende ancora possibile la vita del bosco medesimo.
Allo stesso modo, sopra un prato al cui limitare si svolge la sagoma buia di una siepe sulla quale ancora svettano alberi, si piega un altro tubo, con bene in vista il suo numero di matricola industriale, poiché il mondo è ormai un organismo “intubato”, è come un corpo che sopravvive per – diremmo – accanimento terapeutico.
Qualche ottimista dirà che si tratta di esagerazioni, evidentemente – per accennare ad uno solo dei “fatti” – l’enorme numero di bombe nucleari che si nascondono nella pancia della terra non sono, per lui, un problema: esse sono state costruite per divertimento, sono giocattoli con cui si divertono politici e militari.
In realtà il tema che Aita tocca, in questo suo modo tanto semplice e diretto, quanto incontrovertibile, è un tema “totale”, cioè un tema che non lascia niente fuori di sé, lo stesso attorno al quale, in definitiva, sono nate le civiltà e le religioni: in che modo la conoscenza è un bene, o un male? In che modo ciò che l’uomo ha costruito sulla base delle possibilità offerte dal suo rapporto con la natura aiuta, o annichilisce: annichilisce cioè la stessa capacità che ha posto in essere quella costruzione?
E l’altra domanda sottintesa – non oscuramente, appena velatamente – da queste opere suona così: ma c’è, poi, altro tema su cui valga la pena impegnarsi? Se l’arte non si impegna sull’essenziale, su cosa dovrà impegnarsi?
Da qui il carattere “ossessivo” di queste tavole, ossessivo intellettualmente e psicologicamente: e si badi bene, è un’osservazione estetica questa, non esistenziale, non riferita alla soggettività del pittore Bruno Aita.
Sono “ossessive” nello stesso senso in cui per Pasolini poté essere ossessiva, ma anche fonte di poesia, la constatazione della perdita d’innocenza del popolo contadino, del “frut” involgarito dalla società dei consumi. Ossessive nel senso montaliano per cui è ossessiva la ricerca dell’“anello che non tiene”, del “varco” che permetta la fuga dalla disperante necessità che imprigiona la vita.
Ossessive, cioè, nel senso che idee e immaginazioni che stanno alla loro base sono continua fonte di creatività e di discorso.
 


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