Tristezza allo specchio
Questo testo è una rielaborazione di appunti base per relazioni e dibattiti svolti in incontri di Presenza e Cultura a Pordenone e in convegni promossi da altre associazioni culturali del territorio friulveneto, essendo relatore Luciano Padovese.
Un ringraziamento a chi ha accettato di leggere il testo prima della pub-blicazione e ci ha dato dei suggerimenti. In particolare si ringrazia Marzia Marcuzzo per il lavoro di impaginazione e la scelta dell’immagine. Inoltre Giovanna Marcuz per aver provvisto, pazientemente, alla prima copiatura del manoscritto. (2017)
Luciano Padovese
Il titolo. È stato suggerito da amici e scelto tra diversi possibili. Vuole richiamare la complessità del termine “tristezza” come si presenta ad una analisi abbastanza approfondita. Un termine che, proprio per la sua complessità concettuale, può indurre a un esame di coscienza personalizzato – quasi ponendosi davanti allo specchio della propria anima – da parte di ciascuno di noi che difficilmente può chiamarsi fuori dal problema. È possibile così constatare che tutti più o meno corrono il rischio di essere pericolanti nel versante del male di vivere, oltre che del vivere male, a causa di questo stato d’animo. Nel contempo ci si può disporre, guardando nel profondo di se stessi, a impegnarsi sugli aspetti positivi di tale esperienza. Questi possono favorire una conversione a un orientamento di vita davvero felice, e soprattutto far trovare rimedi ai mali di una tristezza cattiva che altrimenti può davvero produrre effetti deleteri.
Tristezza allo specchio
«La tristezza secondo Dio produce un pentimento
irrevocabile che porta alla salvezza,
mentre la tristezza del mondo produce la morte»
[San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi 7,10]
«Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso: io e voi!
Noi siamo i suoi assassini!
Ma come potemmo farlo?
Dove andiamo noi lontano da ogni sole?
Non andiamo forse errando in un infinito nulla?
Non fa sempre più freddo?
Come troveremo pace, noi gli assassini?»
[W.F. Nietzsche, in La gaia scienza]
Due generi di “tristezza”. Nella citazione di San Paolo, riferita ad apertura del nostro incipit, troviamo una duplice, fondamentale, distinzione del concetto di tristezza che ci obbliga a delle chiarificazioni necessarie, a premessa di tutta la nostra riflessione. Così, prima di parlare della tristezza come vizio (cioè male dell’anima cui esclusivamente richiamano le parole di Nietzche appena riferite), occorre ricordare che c’è anche una tristezza buona che è quel dispiacere, quella afflizione, che consiste nella sofferenza per la propria lontananza dal bene [“da Dio” nella espressione di San Paolo].
Una tristezza che può condurre a un cambio di rotta positivo nella propria vita. A un ritorno, una ripartenza, una conversione al meglio di sé che, in una visione più piena, è un ritorno nei percorsi della coscienza e, in una lettura religiosa, un ritorno nel cammino accompagnato da Dio. Che poi è l’itinerario alla felicità; che non è una “fortuna”, “un caso”, eccetera, ma una vera virtù, cioè frutto di impegno: sia dal profilo umano, sia da quello cristiano. Tanto che il Vangelo, nell’indicare la strada dei seguaci di Gesù, parte dalle beatitudini. E la Chiesa, nel suo catechismo ufficiale, imposta la propria programmazione per la vita morale del cristiano a partire dalla felicità. Logico che Papa Francesco, a base del suo pontificato di misericordia, interpreti nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium tutto l’annuncio di Gesù [parola e vita] nel segno della gioia (come già prima Papa Montini con la sua esortazione apostolica, grande quanto sconosciuta, La gioia cristiana).
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