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Approfondimenti

Vivere come viaggiare: traguardi e miraggi

Tra realtà e mistero, inquietudini e creatività, ambizioni e fedeltà. «Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta» (Paolo Fil 3,13-14)

 

Il viaggio è metafora della vita, le dinamiche del viaggiare metafora del vivere: la partenza, simbolo della capacità di rendere sempre nuove le cose abituali, il percorso, simbolo della vita: uscire, passare attraverso infinite esperienze, tornare. Una dinamica che ricalca quella dell’amore: uscire da sé, unirsi con l’amato, tornare in sé. Le soste, simbolo della necessità di fermarsi ogni tanto, e i traguardi, che nella vita riguardano tre livelli, quello strategico, la felicità; quello operativo, crescere e impegnarsi nell’amore e nel lavoro; e quello immediato, vivere con intensità il presente, far contare ogni singolo giorno.
Allontanando da sé i miraggi, i falsi traguardi.
Un viaggio orientato alla crescita comporta una serie di binomi, di antinomie. Essere ancorati alla realtà, dunque, cercare la verità, prima di tutto di se stessi e poi degli altri, con realismo, con approssimazione. Ma anche coltivare il senso del mistero: in ogni cosa sapere che c’è molto di più di quello che si impatta, che si conosce. Mistero che attrae e inquieta e che richiede creatività: essere creativi è, infatti, sondare la profondità, la sua vertigine. E poi, alimentare le proprie ambizioni positive, le proprie motivazioni, la capacità di far scaturire da se stessi il meglio, per e con gli altri. Propositi che esigono fedeltà, cioè forza di volontà e senso di compagnia.
Michela Favretto

 

Accettarsi nella relatività e imperfezione
Tra limiti e opportunità, conformismo e originalità, incoerenza e autenticità «Quando sono debole, è allora che sono forte» (Paolo 2Cor 12,10)

Di contro agli assoluti imposti dal perfezionismo, occorre rivolgere alla relatività e all’imperfezione uno sguardo più accorto e scorgere in loro la ragione della nostra originalità e della nostra autenticità. Limite, relatività e imperfezione sono all’origine di valori imprescindibili: la capacità di essere dinamici; la costante apertura al nuovo, all’ulteriore; l’occasione di non chiudere ogni cosa in statiche definizioni, ma di usare flessibili sintesi di intelligenza e fantasia per narrare racconti, per formulare poesia; il potenziale di utopia, di sogno a partire dall’imperfetto; e la libertà, che trova nella relatività la sua opportunità di espressione. E poi va considerato che anche il Mistero è un limite, un limite alla nostra comprensione, e, tuttavia, è l’unico sprone che ci spinge sempre oltre.
“Limitatezza” prima di individuare ciò che è escluso, ciò che manca, individua ciò che è proprio, ciò che è incluso, individua, cioè, l’unicità e la particolarità, la pienezza relativa di ciascuno, la sua possibilità di essere libero e creativo, quindi la sua autonomia.
Questa valutazione della relatività e dell’imperfezione è la base necessaria per trovare giuste motivazioni. E così, in una circolarità virtuosa, il sentimento più profondo che si ha, ciò che muove intimamente il nostro essere dice a sua volta la nostra originalità, la nostra unicità.
Michela Favretto

 

L’arte di vivere in gioia e bellezza
Tra disordine e armonia, superficialità e profondità, grettezza e gratuità «Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si contempla il loro autore» (Sapienza 13,5)

Gioia, bellezza e gratuità. Tre dimensioni tra loro collegate che si oppongono alla superficialità, alla grettezza e al vuoto, ossia alla falsità.
Gioia è contentezza, appagamento, pienezza. È coltivare i propri contenuti, se stessi, dal di dentro della condizione in cui si è. È far sbocciare la propria pienezza entro i propri limiti. Gioia, dunque, è ricerca della soddisfazione dei desideri, delle aspirazioni e delle potenzialità che si hanno con lo sguardo diretto verso la propria profondità.
Per essere felici occorre essere creativi, essere artisti della vita: avere interesse per sé e cura degli altri.
Quindi, innanzitutto, educarsi alla vera bellezza, che è completezza, totalità, globalità, è armonia, equilibrio, ed è trasparenza, con gli altri e, prima ancora, con se stessi. È un’utopia, ma basta intraprenderne la strada perché c’è felicità già nel sogno della bellezza e, avvicinandosi ad essa, ci si approssima alla profondità, all’intensità del mistero.
E poi, avere cura degli altri, gratuitamente. Sapendo che la ricchezza del dono consiste in se stessi, e che, dunque, per essere gratuiti bisogna essere belli, bisogna essere felici.
Gratuità è dare, non per dare, ma per essere insieme, vivendo il non ancora, l’eternità del presente, la sua pienezza. Come Dio che si è dato per essere insieme a noi per l’eternità. Michela Favretto

 

Stupirsi e ascoltare: incanto e impegno
Tra abitudini e sorprese, rumori e silenzi, distrazioni e scelte «E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa”» (Marco 7,37)

Aperture vitali essenziali, lo stupore e l’ascolto descrivono il momento di acquisizione di ciò che è positivo, bello. Ne nasce l’incanto, reazione di colui che resta colpito e, così, si impegna.
Atteggiamenti poco diffusi in un’epoca in cui prevalgono la sicurezza assoluta di sé, oppure l’indifferenza, l’apnea, il daltonismo culturale, che non consentono alcuna disponibilità né allo stupore, né all’ascolto.
Ci vuole, invece, un impegno metodologicamente orientato alla ricerca della profondità, alla partecipazione, che significa disponibilità a lasciarsi emozionare, coinvolgere in ogni ambito di vita. E lo stupore è il palombaro della profondità, è la percezione folgorante del proprio e altrui mistero, la capacità di allargare gli orizzonti di ogni piccola cosa, di cogliere sempre spazi di libertà e di novità. È una qualità divina. Significa innamorarsi delle cose, vederne il carattere aurorale.
Per stupirsi occorre disarmarsi, essere come bambini, cioè genuini, semplici ed essenziali, occorre stare in silenzio, vivere il presente e viverlo intensamente. Prolungare nella memoria ogni esperienza, vagheggiarla, ruminarla, intuirla e comprenderla. E allora scaturisce l’impegno: essere protagonisti, ritrovare significati e sensi fondamentali, capire la grandezza del creato, porsi al servizio di qualcosa di più grande di sé, come il bene comune e di ciascuno. Michela Favretto

 

Indignarsi con calma, per rimanere sempre liberi
Tra indifferenza e partecipazione, critica e proposta, violenza e accoglienza «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Paolo Ef 4,26)

Come reagire di fronte a violenza e terrorismo, bambini maltrattati, morti per fame e sete, politica disinteressata al bene comune, mancanza di rispetto delle diversità e sistematica contrapposizione? Occorre fare proprio il grido di chi non ha voce, occorre indignarsi senza arrivare alla rabbia, all’ira. Senza lasciare, cioè, che le frustrazioni generate dall’ambiente esterno producano insicurezza, sfiducia, paura, e queste sfocino in un atteggiamento di estrema autodifesa nel quale non si è più padroni delle proprie azioni e delle proprie emozioni.
Bisogna non diventare complici di ciò che fa arrabbiare. Dare sfogo all’ira, così come negarla, sono due gestioni negative della rabbia. La collera è positiva, liberatoria, quando si rimane capaci di liberarsi di essa. Allora è indignazione con calma, allora è non accettazione di ciò che non è degno, ma con espressioni misurate, con modalità controllate. Con calma. E questo significa non mancare mai di rispetto, non superare mai il limite, mantenere il senso estetico, avere il gusto del bello.
In ogni circostanza, per indignarsi correttamente occorre essere coinvolti di più da ciò che è positivo, convertirsi all’indulgenza, soffermarsi sull’altro, affermare la sua identità, tenere presente tutte le sue potenzialità. Non smettere di amare neppure per un istante. Michela Favretto
 

Vivere il quotidiano con levità e umorismo

Tra ostilità e gentilezza, ombrosità e sorriso, insicurezze e speranza
«Un cuore contento è un buon rimedio; uno spirito abbattuto inaridisce le ossa» (Proverbi 17,22)

Sorridere, essere gioiosi, saper cogliere le sfumature, essere capaci di relativizzare anche le situazioni che a un primo impatto possono sembrare difficili, o addirittura drammatiche. Avere buon umore, ossia accentuare e lasciar fluire dentro di sé le proprie energie positive, allontanando il negativo. È questa la virtù dell’umorismo.
Essere umoristi, infatti, significa guardare le cose con positività, riuscire a vederne anche gli aspetti secondari, più sorridenti, mantenendo quel tipo di distacco dagli eventi, dagli avvenimenti, che consente un coinvolgimento più lucido, deciso, efficace, dunque, più pieno, perché scelto nelle sue motivazioni e nelle sue modalità. Una posizione, una prospettiva, questa, dalla quale guardare anche se stessi: farsi spettatori dei propri comportamenti porta a non prendersi troppo sul serio, a saper sorridere di sé, a lasciar sorridere di sé, a vincere la propria permalosità, prima nemica dell’umorismo.
Essere umoristi, in definitiva, significa essere persone più mature, equilibrate. E si può imparare ad esserlo. Partendo dalle motivazioni: essere troppo seri, gravi, comporta togliere alla vita l’incanto, la novità, e, dunque, agire per dovere, per abitudine.
Invece, occorre essere lievi, umili, non essere radicali, esasperati. Occorre avere speranza, essere grintosi, energici. Occorre essere credenti nella vita, sentire l’obbligo della gioia.
Michela Favretto
 

Registrazioni audio

martedi dibattito 01OTT parte1.mp3 5.2 MB
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