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Valeria Re

Quarto classificato - Sezione Senior

Assurda normalità di Tijuana

Tijuana metropoli dalle molteplici anime, città di frontiera, ibrida e globale. Luogo di contatto e scambio, dove si respira l’aria della globalizzazione: flussi migratori dal sud più povero e quelli economici e culturali statunitensi si incontrano a Tijuana, centro nevralgico di rielaborazione costante. Ma Tijuana non è solo questo, divisione e contraddizioni si affermano violentemente: il viaggio mi ha insegnato a vedere e non limitarmi a guardare.
Guardo fuori dal finestrino del taxi, una barriera metallica corre parallela alla strada che dall’aeroporto conduce al resto della città: segna il confine internazionale separando fisicamente Messico e Stati Uniti. Arrivo a destinazione, il quartiere Playas: sulla spiaggia la barda norteamericana il muro nordamericano raggiunge l’oceano e si mostra nel suo sfacciato e amaro splendore.
Benvenuti a Tijuana, dove la politica statunitense di militarizzazione del confine ha trovato concreta espressione. La barriera metallica, l’aumento delle pattuglie di confine, i milioni di dollari spesi in videosorveglianza e sensori, hanno scoraggiato l’attraversamento illegale, ma solo in parte. Molti dei migranti rimpatriati, infatti, hanno famiglia e affetti negli Stati Uniti e mi descrivono la loro attuale quotidianità: una lunga attesa, appostamenti notturni per conoscere percorsi e orari delle pattuglie, scambio di esperienze e informazioni. Si aspetta la notte giusta per l’ennesimo tentativo, unico obiettivo in mente, il ritorno. Sergio e Josè vogliono superare la barda via mare, li accompagno per provare il loro sea scooter (un’elica a motore), che renderebbe meno pericolose le 5 ore di nuoto tra onde e correnti del Pacifico. Miki el ilegal, Antonio e l’Hawaiano, tante storie di uomini che vivono nel limbo, un’attesa che diviene anni e annienta ogni altro pensiero.
Cammino a lato della barriera e osservo: la strumentazione video sorveglia dall’alto, le pattuglie compaiono dall’altra parte. La sensazione di controllo che la barriera comunica si scontra con l’“assurda normalità” che ho accanto: a pochi metri ci sono pescatori, famiglie, bambini e gruppi di amici. Scopro che ci si può abituare ad un muro che divide e grida la volontà di controllarti, ci si può convivere: agli abitanti l’invadente barda è divenuta familiare, parte del paesaggio e dell’ambiente urbano. La barriera c’è e si vede, se ne critica la costruzione, ma sembra diventare invisibile durante i piacevoli pomeriggi in riva all’oceano o sul lungomare.
Mi stupisco nel prendere coscienza di essere l’unica che non può evitare di sentire l’ingombrante presenza. C’è di più. Con la barda si può giocare: tra risate e un pizzico di paura alcuni bambini corrono tra i pali raggiungendo il suolo statunitense per pochi metri, un’ingenua gara di coraggio che li diverte. Questa “assurda normalità” confonde ma risveglia dal sonno. Un sonno indotto dalla potente retorica della globalizzazione che spesso nasconde, sotto i nostri occhi, segnali inquietanti.
 

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