Silvia Romio
Terzo premio ex-aequo – Sezione Senior
È ancora buio, sono da poco passate le 3 di mattina di un giorno di inizio luglio… si parte! Macchina piena all’inverosimile. Destinazione Albania.
La voglia di rivedere volti, luoghi lasciati un anno fa è tanta, i 1000 km che ci separano passano in fretta, come i paesaggi che ammiro oltre al finestrino e che mi lasciano incantata davanti a quella luce che fa apparire tutto nuovo e diverso da come appariva un istante prima. I km aumentano ma il tempo sembra andare a ritroso e lì, lungo la costa balcanica, si possono ancora vedere i resti delle case bombardate, segni della recente guerra, ma allo stesso tempo gustare il brulicare della stessa gente che con ogni mezzo cerca di risollevarsi.
La sera varco il confine ed entro in Albania e scopro con immenso piacere che non è più necessario il passaporto: la bandiera rosso fuoco con al centro l’aquila nera a 2 teste, sventola orgogliosa a fianco di quelle europea e montenegrina. Mi si apre il cuore! Alla mente ritorna tutto quello che ho letto sulla storia albanese, ma anche le testimonianze dirette di chi ha vissuto il regime, parole che l’anno prima mi avevano colpito come uno schiaffo. Piccoli segni esteriori questi, ma che danno testimonianza di un’apertura all’esterno del Paese, che ancora oggi non è così scontata.
Col nuovo giorno ritrovo gli statici bunker in cemento armato fatti costruire dal dittatore, le numerose mucche al pascolo, i carri di fieno trainati da asini o cavalli, i lavaggi per auto improvvisati che sbucano in ogni dove. Il ponte iniziato l’anno scorso è quasi concluso, l’autostrada che da Tirana collega il nord del paese sarà ultimata a breve con doppia corsia per senso di marcia. Il paese è in fermento, per chi è rimasto è un gran da fare!
L’energia elettrica ormai viene fornita per tutto l’arco del giorno, nei paesi vengono fatti gli allacciamenti all’acquedotto e avviata la raccolta dei rifiuti. Nelle famiglie si prepara lo yogurt con il latte appena munto e abbondano le dolcissime angurie coltivate negli orti. Si fa il pane in casa (il suo profumo fa svenire dalla bontà), utilizzando la farina ricavata dal mais prodotto dal proprio campo.
Il popolo scalpita, costruisce, coltiva, poche volte pianifica. Sulle mani i segni del duro lavoro all’epoca del regime, in molti cuori la tristezza mascherata per quei figli partiti per l’Italia di cui poi non si è più avuto notizia.
Sono passati 20 giorni, le amicizie si sono consolidate e ne sono nate delle nuove. L’auto è stata svuotata, dentro c’era qualcosina per tutti. L’anima e il cuore invece sono pieni di emozioni, sguardi, sorrisi, lacrime frenate in tempo, esperienze e momenti condivisi con persone, piccole e grandi, che sedimentano nel cuore, indelebili.
Torno a casa in aereo, in mano solo un bagaglio con alcuni splendidi oggetti avuti in regalo dalle persone conosciute, frutto della fantasia e della creatività che finalmente possono esprimere.
Si parte. Il sole sta tramontando, la luce rossa sbatte sulle montagne, è difficile trattenere le lacrime ammirando quello che si sta per lasciare… Un’ora lassù, tra le nuvole e la scena cambia. Laggiù terreni squadrati, fabbriche, autostrade, ponti, ma di mucche al pascolo e carri di fieno trainati dagli asini… neanche l’ombra.