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Matteo Salvetti

Terzo premio ex-aequo – Sezione Senior

Da Tallinn a Varsavia

Arrivo a Berlino con un volo Easy Jet da Tallinn in Estonia e alle ventitré e trenta sono in Dolgenseestrasse nello studentato. Non posso credere d’essere passato così velocemente da Helsinki alla capitale tedesca con un compagno d’avventura greco, il mio amico Joannis, usando tutti i mezzi di trasporto possibili: nave, aereo, treno, autobus… piccoli miracoli da Erasmus.

Neanche il tempo di adattarmi al clima già primaverile della capitale tedesca, poche ore di sonno vigile, e alle cinque e qualcosa nella stazione di Lichtenberg, vera porta dell’Est nonché pericoloso centro di raccolta della scena neonazi dell’Ost-Berlin, sono già sul Warszawa Express.
La Polonia comincia subito dopo Frankfurt am Oder: nella mia testa ho uno stereotipo grigio di questo Paese. Immagino una continuazione dei quartieri orientali berlinesi ad est, estetica realsocialista, ruggine, aria di povertà post-comunista e, in mezzo, foreste di betulle da taiga sovietica.

A Varsavia mi aspetta Urszula, la mia futura moglie: solo un anno fa a Rovereto, non avrei mai pensato che i miei sogni potessero diventare un giorno reali né che la mia vita potesse prendere una piega di questo tipo. La Polonia era solo nei racconti di mio nonno Giorgio, deportato in un campo di lavoro vicino a Görlitz in Slesia.
Mentre passo attraverso i paesaggi della Wielkopolska e il treno ferma a Poznan penso a lui che, sicuramente, sessant’anni fa ha visto lo stesso orizzonte. Sembra di sentirlo raccontare. Si ha come la sensazione, per dire la verità, che la Seconda Guerra Mondiale non sia nemmeno finita.
L’attenzione va poi alle case, il tetto è a quattro spioventi come nella tradizione architettonica che io credo tedesca, lungo il confine si susseguono da una parte all’altra moderni mulini a vento per la produzione di energia eolica. Il paesaggio è quasi ondulato e ricompare la neve: si tratta di un manto bianco e sporco in via d’estinzione. Quanto basta per dare al paesaggio un tocco di atmosfera grigia e triste.

Le stazioni polacche sono esattamente come le immaginavo: un regno di ruggine e senso di trascuratezza. In questa stagione comunicano un’idea falsa di depressione economica. Del resto il livello di pulizia dei centri cittadini italiani per contro non dice nulla oggi della decadenza culturale imperante nel nostro Paese.
Poi di colpo le immense distese di campagna che caratterizzano il panorama si restringono, aumentano le abitazioni e a poco a poco si viene inghiottiti da Varsavia. Riemergendo dai corridoi della stazione subito davanti agli occhi compare il Palazzo della Cultura di staliniana memoria odiato dagli abitanti della capitale: una sorta di Milano polacca con businessman in cravatta e completo da lavoro ad ogni angolo. Il Liberismo non ha i giorni contati, almeno non qui.
E con gli occhi intenti ad esplorare nei minimi dettagli le scritte in una lingua piena di consonanti impronunciabili è cominciato quel giorno il mio essere polacco.

 


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