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Fotogallery

Dopo il punto, a destra.
L’altra faccia delle parole o iconografie di volta in volta riprese dal centro Italia o dall’area boema, dal mondo germanico o da Venezia.
Rispetto alla condizione, un tempo tradizionale, dell’artista alle prese con l’iconografia neotestamentaria della Passione o con la resa di un repertorio mitologico desunto da Ovidio, la posizione dell’illustratore è tuttavia ulteriormente problematica nel suo statuto di adesione anche fisica dell’immagine al testo, paragonabile all’ars miniatoria. Diviene così
fondamentale l’ultimo passo: quello che si svincola dalla descrizione e ci proietta oltre i dualismi significante/significato, nel senso intimo della scrittura...
Accade allora che nelle tavole di Alessandra Cimatoribus la componente verbale venga integrata nell’immagine e che gli articoli della Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo sbriciolino le proprie lettere fra le bollicine di pensiero di un bimbo, nel soffio di parole di un altro e sotto i rami di un “androgino” arbor vitae; o che si facciano
flusso incalzante al margine di un sentiero percorso con il cuore in gola da un esserino azzurro che tutti ci rappresenta, mentre i gorghi bui delle chiome di alberi che tutti abbiamo sognato almeno una volta costringono un intero, delicato paesaggio a flettersi minaccioso in avanti, destandomi la consolante sensazione che l’arte – da Goya a Munch, da Burri a Cucchi – talora non trascorra invano.
Accade che negli Incastri di Federica Pagnucco il bilanciamento della pagina sia costruito secondo un arretramento laterale delle figure di estrema, asimmetrica eleganza, a prescindere dalla sua funzione ultima che è quella di ospitare una parte del testo. Si crea così una completa coerenza fra spazio della lettura e componente grafica, in cui il folle incastro proliferante delle forme (lupoairone- fanciulla-pesce, in Mumble; balena bianca-chiocciole-divoratore blu, in Toothless) procede in sequenza con l’apparente e colloquiale
necessità di uno stilizzato decoro vegetale longobardo o di una grottesca del Cinquecento. E la tecnica si apre quasi necessariamente al collage di carte, spaghi o ritagli di giornale, come a sottolineare lo zampillare spontaneo e casuale di ogni elemento.
Succede che nelle tavole dedicate da Renata Gallio all’Omino della pioggia di Gianni Rodari il labirinto visivo si dipani invece sotto forma di tubature, fra cui l’idraulico celeste si aggira – come in una distilleria metereologica – con professionalità talmente scarsa da indurre alla tenerezza. Sotto un cielo rosso, che ci proietta diritti nella dimensione priva di appigli stabili della fantasia e rende praticabile al piede ogni sbuffo di nube, viene evocato un mondo degno di un “Bosch moralizzato”, in cui è normale che pesci ed ombrelli svettino in cima ai campanili; e dove un colore che si plasma sotto il gonfiarsi dei volumi riesce a conferire eleganza di masse persino a due tripponi accaldati, calati a bilanciare nella composizione il
soffice fogliame su cui, deposto il petaso ad elica, dorme l’eroe.
Accade, infine, che gli acrobati di Sara Colautti giungano a rendere pienamente visibile il sottile equilibrio sul quale si gioca la partita. Sospesi nel vuoto come i Pulcinella di Giandomenico Tiepolo, circondati da un silenzio di luce in cui ogni frammento di realtà – che si tratti di una piuma o di una madia con le sue stoviglie – si trasforma in sorprendente ricordo di una concretezza perduta, più che rinviare ad un racconto i personaggi paiono alludere alla dimensione metafisica cui ancorare la sua melanconica lettura.
Anche l’illustrazione può avere un suo riserbo nei confronti del testo, ma soprattutto può costruire una magia visiva in cui il cerchio si chiude ed è meglio non aggiungere verbo.
Meglio seguire, allora, il consiglio di un grande umorista inglese – per nulla digiuno d’arte – che a proposito di un dipinto molto amato, ma sulle cui qualità non riusciva a costruire un discorso di efficacia tale da risultare necessario, scriveva: “Tuttavia mi piace moltissimo […]. Ma nulla di ciò che potrei dire aggiungerebbe qualcosa al fascino del quadro; e se non c’è niente da dire, si dovrebbe avere il buonsenso di non dirlo”.
Fulvio Dell’Agnese


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